Ci sono saperi e tradizioni della nostra terra che, per fortuna, stanno vivendo una fase di meritata e forse inaspettata riscoperta, grazie al diffondersi di una cultura che valorizza la genuinità e il sapiente utilizzo delle risorse locali, troppo a lungo trascurate nel passato.
Una di queste opportune riproposizioni riguarda la conservazione del pesce azzurro, una pratica trascurata nel tempo, forse perché relativa ad un tipo di pesce che è erroneamente considerato “povero”. Alici, sarde, sgombri possiedono invece proprietà organolettiche eccellenti (sono molto ricchi di acidi grassi come gli omega 3, assai utili per la salute dell’uomo, di vitamina B2, PP e ferro) che fanno di queste varietà di pesci di piccola pezzatura, dal colore dorsale appunto blu/azzurre e dal ventre argentato, degli autentici tesori di gusto e salute.

Una tradizione che si tramanda nel tempo

La conservazione del pesce azzurro è stata per tanto tempo patrimonio comune, tramandato da una generazione all’altra, di quasi tutte le famiglie che avevano la fortuna di vivere lungo le coste del nostro mare.

Nelle dispense di molte abitazioni era facile, infatti, trovare un contenitore di legno dove, con maestria tramandata nel corso degli anni, le alici, eviscerate, venivano disposte una accanto all’altra, alternando testa e coda, in strati, per consentire al sale grosso, che era cosparso in maniera copiosa tra uno strato e l’altro di pesce, di penetrare in maniera ottimale. Quando il contenitore era quasi pieno, veniva chiuso con un tappo di sughero, su cui si sistemava un peso, in grado di esercitare una pressione tale da far colare, nei due mesi circa necessari per completare il processo di salatura, il liquido in eccesso: la base per la pregiata “colatura”.

Già nel corso della prima Guerra Mondiale l’industria del pesce conservato aveva ricevuto nella nostra zona un forte impulso, grazie ad un consistente aumento della domanda di questo prodotto.

L’Esercito italiano aveva, infatti, la necessità di approvvigionare i suoi soldati, costretti per molti giorni nelle trincee, in luoghi impervi e isolati, che rendevano davvero arduo garantire ogni giorno l’arrivo di un pasto caldo e sostanzioso. Le scatolette di acciughe, tonno, sardine e sgombri erano quindi molto usate per fornire, senza problemi di conservazione, proteine nobili a militi che si trovavano spesso, per parecchio tempo, in situazioni veramente disagiate.

Sia a Marzamemi sia a Portopalo di Capo Passero, le tante attività economiche legate al ciclo produttivo del pesce conservato conobbero quindi in quegli anni un considerevole sviluppo, nonostante la carenza sia di manodopera maschile sia di sale e olio, indispensabili per inscatolare il prodotto mediante i più innovativi procedimenti tecnologici, ma sempre seguendo il protocollo di lavorazione fedele all’antica tradizione siciliana.

Per molti secoli, infatti, erano stati utilizzati solo contenitori di legno o di terracotta, che non garantivano però né la durata né soprattutto un trasporto agevole e igienicamente sicuro. Con l’introduzione, nella seconda metà dell’Ottocento, del sistema di inscatolamento e sterilizzazione, che si deve al francese Appert, si era verificata una vera e propria rivoluzione nel settore.

Le aziende di Marzamemi e Portopalo

A Portopalo furono i Bruno di Belmonte, nobile famiglia ispicese, a puntare su questi prodotti, grazie anche al fatto che avevano rilevato la gestione della tonnara. Per un periodo lungo e assai florido furono le due sorelle Preziosa e Concettina, figlie di don Pietro e sorelle del deputato Cesare, a guidare con sagacia imprenditoriale l’attività dello stabilimento.

A Marzamemi, attorno alla tonnara, che era da sempre una delle più pescose dell’intero Mediterraneo (la seconda in ordine di importanza in Sicilia, dopo Favignana), sorsero man mano una ventina di aziende, che erano in grado di mettere in commercio un prodotto rinomato, di assoluta qualità.

A dare vita a queste attività, che ben presto si consolidarono e risultarono assai fiorenti, furono imprenditori locali, come Campisi o provenienti da Palermo, Augusta e Catania, attratti sia dalla pescosità del tratto di mare dell’estremo sud-est siciliano (soprattutto la secca di Pachino, distante circa otto miglia da Marzamemi) sia dal gusto particolarmente sapido del pesce, dovuto alla limpidezza delle acque marine e al loro ottimale grado di salinità.

Gli edifici che sorgono ancora sulla via principale di Marzamemi, a partire dal luogo, all’incrocio con la strada per il porto Fossa, dove ora è stato costruito un hotel, e che erano stati utilizzati per custodire le botti di vino da inviare via mare in Francia, cambiarono destinazione d’uso. Vennero ben presto tutti trasformati in magazzini per la conservazione del pesce, su iniziativa di imprenditori come il cavaliere Grasso, i Barranca, gli Adelfio, i cui nomi ricorrono ancora nei ricordi dei marzamaruoti più anziani. Nel 1937, per un solo anno, anche la signorina Preziosa dei Bruno di Belmonte avviò un’attività di conservazione del pesce azzurro a Marzamemi.

Alcuni prodotti erano etichettati dalla Angelo Parodi di Genova (con l’indicazione “lavorazione sul posto di pesca”, spesso senza neppure indicare Marzamemi o la Sicilia), altri dalla Coalma del palermitano Grasso, mentre a fornire il sale provvedevano le saline degli augustani fratelli Bussichella, coinvolti anche nella gestione della distilleria per gli scarti della vinificazione (le vinacce), i cui ruderi sorgono ancora nei pressi della rotatoria posta all’ingresso del borgo. Venivano utilizzati pure pesci come i “sauri di canale”, dal sapore molto intenso, più sapido rispetto a quello dello sgombro, ma che ora non vengono quasi più commercializzati perché non graditi a consumatori, che prediligono quasi esclusivamente molluschi o pesci con poche spine.

Uno dei più intraprendenti operatori del settore fu Bastianello Di Mercurio, di Terrasini, che aveva cominciato a lavorare come semplice dipendente ma che riuscì poi ad avviare una fiorente azienda di conservazione del pesce. Suoi parenti, come il comandante Salvatore Di Mercurio, sono ora i maggiori operatori della zona per quanto riguarda la cattura del pesce azzurro e riforniscono anche gli Adelfio, che, insieme ad altri imprenditori, rappresentano veri e propri emblemi dell’eccellenza ittico-alimentare siciliana, essendo riusciti a conquistare i mercati mondiali, grazie a prodotti di elevatissimo standard qualitativo che raggiungono livelli di assoluta e riconosciuta eccellenza.
Gaetano, Marica e Valeria Adelfio, figli di Franco, recentemente scomparso, e nipoti di quel Gaetano che nel 1931 decise di lasciare il quartiere Ballarò di Palermo per dare vita a Marzamemi ad una solida realtà imprenditoriale ormai affermatasi come tra quelle leader del settore, conservano con gli altri familiari tanti ricordi dei decenni passati.

U ponti sbarazzatu

Ad esempio, in anni in cui i mezzi di comunicazione erano assai precari, per potersi rendere conto della quantità di pesce che i pescherecci stavano portando verso la Balata, si prestava attenzione a quante casse erano rimaste vuote sopra il ponte, dove erano state collocate prima della partenza. Se “u ponti era sbarazzatu”, se cioè era ormai sgombro, voleva dire che le cassette erano state tutte riempite di pesce e collocate con il ghiaccio nella stiva.

Resta tuttora vivo il ricordo di giornate memorabili, come quella in cui, negli anni ’80, fu tanto il pesce catturato da riempire in pochissimo tempo ben 8.300 cassette di sardine, una quantità enorme, se consideriamo che ogni cassetta contiene all’incirca undici kg di pesce, tutta trasformata e conservata in scatolette e vasetti. E il comandante Salvatore Di Mercurio si emoziona ancora rievocando il gravissimo, estremamente pericoloso incendio che stava per distruggere il peschereccio “Giuseppe Di Mercurio”, mettendo a rischio la vita dell’equipaggio, a sedici miglia al largo di Portopalo. Racconta che quando contattò angosciato, nel cuore della notte, Franco Adelfio, per riferirgli dell’accaduto, questi pregò intensamente, rivolgendosi ad una statuetta del Sacro Cuore che si trovava nel suo magazzino, con le parole: “aiutaci tu. davvero ritieni che ci meritiamo tutto questo?”.

Le implorazioni vennero esaudite e l’incendio fu domato senza danni alle persone.

Centinaia di lavoratori occupati nel settore

La pesca e la conservazione di acciughe, sarde, sgombri davano lavoro a Marzamemi, per almeno sette mesi l’anno e dieci ore al giorno, a centinaia di uomini e donne. Erano una ventina le imbarcazioni che andavano in mare con il cianciolo, un sistema di pesca ancora usato, basato su una rete da circuizione ed in ogni barca prestavano la loro opera diciotto lavoratori. Nei tanti magazzini a terra erano poi impegnate nelle varie fasi di cottura ed inscatolamento, per ognuna di queste strutture, una trentina di donne, quasi tutte di Pachino e di Portopalo, che raggiungevano Marzamemi ogni giorno a piedi e a volte scalze.

È davvero importante che, anche nella nostra terra, operino aziende di indubbia valenza, le quali, senza cedere allo strapotere delle grandi industrie, che usano spesso pesci provenienti da chissà quale parte del pianeta, proseguono con sagacia e coraggio un’attività che è intimamente legata alla storia, all’economia e alla cultura siciliana.

Salvo Sorbello