Anche nella seconda metà del Novecento, fino a quando rimase in funzione, Marzamemi era la più importante tonnara della Sicilia Orientale. 

Ne erano sopravvissuti solo alcuni dei tanti impianti che erano sorti nel corso dei secoli in varie parti della costa siciliana, in particolare nel siracusano, nella parte settentrionale nelle zone di Milazzo e di Palermo, in quella occidentale del trapanese ma la tonnara di Marzamemi era sempre “la migliore di ritorno del Regno ed isola di Sicilia, facendo delle ubertosissime pescagioni”, come affermava il D’Amico, autorevole studioso. Purtroppo, nel secondo dopoguerra erano ormai irrimediabilmente lontani i prosperosi tempi dell’Ottocento, quando a Marzamemi si pescavano, in media, 4500 tonni circa all’anno, come risulta dalla Relazione alla Commissione Reale per le tonnare di Pietro Pavesi, pubblicata dal Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio nel 1889.

Con vari ruoli, per lungo tempo a gestire l’impianto di Marzamemi sono stati i Nicolaci di Noto, che possiamo considerare veri e propri “industriali del tonno”, in grado di poter affrontare, in maniera programmata, gli innumerevoli problemi derivanti dalle variazioni della quantità di pescato; solo grandi capitali ed acume imprenditoriale potevano infatti fronteggiare perdite pluriennali, ammortizzabili nei successivi anni positivi di pesca e di commercializzazione. Addirittura, Ottavio Nicolaci di Villadorata, con notevole intuito, per diversi anni prese a censo le tonnare di Terrauzza, Ognina, Fontane Bianche, Fiume di Noto, Sta in Pace e Vendicari, evitando che fossero così attive, col solo scopo di concentrare tutti i tonni nell’impianto di Marzamemi. Nell’ultimo ventennio di attività, a gestire la tonnara del borgo pachinese sono state due famiglie siracusane: i Quadarella prima e i Cappuccio dopo.

La piazza Regina Margherita

piazza regina margherita

La tonnara di Marzamemi anche nel dopoguerra costituiva un’importante fonte di reddito sicuro, di fondamentale rilevanza in tempi di diffusa povertà; dava lavoro ad una quarantina di persone, tra marinari, marinarotti, campieri, sorveglianti, calafatari.  Se consideriamo anche le famiglie, per diversi mesi il borgo ospitava alcune centinaia di persone, che avevano così la possibilità di sfamarsi e di mettere da parte qualcosa per i mesi più difficili. Iniziavano a lavorare dai primi del mese di aprile, per preparare le reti che a spezzoni dovevano essere poi unite, utilizzando gli ampi spazi della balata e quelli della enorme piazza Regina Margherita, appositamente pensata così vasta, prima che sorgessero la Chiesa Nuova, dedicata a San Francesco di Paola (del 1946) e l’ufficio postale, che è stato costruito nel 1962.

Erano ancora in piena efficienza i tre scieri (denominati San Corrado, Concettina e Progresso), una chiatta, una muciara per i Rais e tre speronare: Madonna del Carmine, Dante e Fanny. A volte lo sciere era carico di centinaia di tonni e non poteva attraccare alla balata a causa dei bassi fondali; per tale motivo, nel periodo estivo, in prosecuzione della banchina stessa veniva costruito un ponte, lievemente in salita, con travi e tavole. 

Dalla costa era possibile ascoltare i canti dei tonnaroti, come quello, recitato due volte, sia al momento del calatu che al momento del salpatu, in cui si inneggiava ad una certa Lina, che dapprima è una bella fanciulla vergine, fiera della propria illibatezza e che merita per ciò parole di riguardo. Successivamente diviene una “donna di malaffare”, che, concedendosi a chiunque, è pronta per ogni nuovo parto. Lina non appare altro che una trasfigurazione della rete stessa, vergine al momento del calo e gravida di tonni a fine campagna. E l’identificazione della rete con una donna sarebbe il motivo per cui i marinai rivolgono preghiere e canti per propiziare una pesca abbondante a sant’Antonio, che concede la grazia della gravidanza alle donne sterili. I barconi su cui venivano issati, al comando del Rais e con uno sforzo sovrumano, i tonni finiti nella camera della morte erano appunti gli scieri: con oltre venti metri di lunghezza sono le più grandi imbarcazioni utilizzate in tonnara. Anche dentro queste imbarcazioni i tonni continuanopi a dibattersi ed a colpirsi tra di essi, provocando un rumore impressionante, finché, sfiniti e boccheggianti, non restano esanimi. Accadeva spesso che alcuni marinai, stremati per la fatica, alla fine della mattanza prendessero il bagno proprio nella camera della morte, arrossata dal sangue dei tonni ma al riparo dal pericolo di qualche pescecane che spesso capitava nei pressi della tonnara.

Fare cappotto

I tonni caricati nello sciere venivano contati ed in relazione al loro numero erano issate delle bandiere di diverso colore, collocate in diversi punti dello sciere stesso: una bandiera bianca a lato sud era il segnale di dieci tonni; la stessa ma posta al centro, era il segnale di venti tonni, una bandiera rossa di trenta, tre bandiere, una al centro e due ai lati, era quello di 50 tonni, mentre l’innalzamento di un pezzo di cappotto al centro era segno di cento o più tonni catturati e questo spiegherebbe perché viene ancora usata l’espressione fare cappotto. In tal modo venivano avvisati i lavoranti della camperia, che potevano così prepararsi in maniera adeguata. Terminata la pesca, i tonni erano portati nello stabilimento, dove, tramite degli argani, venivano immersi in acqua per essere lavati, onde evitare che il loro sangue potesse guastare la carne. Decapitati e sventrati, una parte erano venduti subito e gli altri, portati in spalla dagli infanti, venivano appesi per la coda nell’apindituri, dove rimanevano ventiquattr’ore a dissanguare. Da un balcone interno, ancora esistente e che si affaccia sulla camperia, il principe aveva modo di controllare che il lavoro procedesse nel migliore dei modi.

Purtroppo, da qualche anno gli scieri, prima custoditi nella grande loggia, si trovano esposti alle intemperie e anche la ciminiera superstite (prima ce n’erano due) è in pessime condizioni.

Nel dopoguerra non era più attivo lo stabilimento conserviero, chiuso già alla fine degli anni Venti. I tonni catturati venivano ora quasi tutti venduti presso il mercato ittico di Catania, grazie anche alla nascita di alcune fabbriche di ghiaccio e alla diffusione dei camion, che consentivano un rapido trasporto via terra. Nel borgo marinaro di Pachino erano però sorte nel frattempo delle floride attività di lavorazione e conservazione del pesce azzurro e del tonno, che riuscivano (e lo fanno con maestria ancora ai giorni nostri) a produrre delle autentiche eccellenza a livello europeo. Dal tonno rosso vengono ricavati: il mosciame (parte di tonno lavorata ed essiccata al sole), la ventresca (la più delicata e pregiata parte del corpo del tonno), la bottarga (le uova di tonno, asportate nella loro sacca placentare, di forma vagamente ovale e messe sotto pressa, facendole essiccare lentamente), il tarantello (il filetto, privo di grassi e molto morbido), il lattume (il liquido seminale del tonno), la soppressata o salamini (la carne del tonno tritata e successivamente insaccata in budella, che anticamente erano di vitello). Non a caso il tonno spesse volte è stato accostato al porco, come recita il proverbio: u surri i majiu e u porcu i frevaru (il tonno di maggio e il maiale di febbraio). Anche la testa e le pinne erano un tempo utilizzate: pressate e bollite servivano ad ottenere un olio lubrificante delle attrezzature meccaniche; persino il residuo di questo veniva usato come concime (baganu). Lo stabilimento conserviero era addossato alla loggia ed al palazzo del Principe e i suoi ruderi, delimitati dalla Via Jonica, dalla via Marzamemi e dalla via Letizia. 

Arriva l’energia elettrica

È da tener presente che l’energia elettrica per l’illuminazione per uso domestico ed industriale ha fatto la sua apparizione a Marzamemi solo nel 1950. Verso la fine dell’800 Antonio Starrabba, marchese Di Rudinì, che fu per svariate volte presidente del consiglio dei ministri, aveva fatto costruire un grande ed innovativo palmento, mentre i Villadorata realizzarono un mulino a vapore, che fu poi convertito in distilleria, e che ora versa in stato di degrado, anch’esso proprio alle porte di Marzamemi. 

Di converso, la nascita della ferrovia, attiva dal 1935, che collegava Noto con Pachino, causò la crisi del porto di Marzamemi, che da allora non ebbe più la grande rilevanza che aveva rivestito in precedenza per il trasporto del vino verso Genova e dei panni di lana, prodotti in grande quantità a Noto, verso le città del nord – Europa. Erano intanto sorte varie cantine, che i proprietari terrieri avevano fatto costruire, l’una accanto all’altra, lungo l’attuale via Marzamemi, fino al centro della borgata e che ora sono state trasformate in bar, pizzerie, negozi e ristoranti ed altre in stabilimenti conservieri del pesce.

Nel censimento governativo dell’industria della pesca in acque marine del periodo immediatamente precedente al secondo conflitto mondiale (la Capitaneria di Siracusa comprendeva: Augusta, Pozzallo, Brucoli, Avola, Marzamemi, Marina di Ragusa e Scoglitti, oltre al capoluogo), venivano conteggiati a Marzamemi 73 navigli: 3 velieri e 70 barche e 121 persone addette alla pesca, di cui 47 di coperta e di macchina, 52 pescatori stabili, 11 occasionali e 11 familiari coadiuvanti (nei primi anni del secolo in corso i pescatori censiti a Portopalo, seconda marineria di pesca siciliana dopo quella di Mazara, erano circa 430, rispetto ai 370 del 1965 ed ai 520 del 1975). I pescatori occupati a Marzamemi nel 1965 erano 75, saliti a 120 cinque anni dopo e a 80 nel 1975, a fronte tuttavia di un calo della quantità di prodotto pescato: 1182 tonnellate nel ’65, 657 nel ’70 e 546 nel ’75. 

Il 12 giugno del 1943, pochi giorni prima dello sbarco alleato, la tonnara di Marzamemi (come pure quella di Vendicari) era stata mitragliata, con morti e feriti, dall’aviazione inglese. Aveva ripreso a funzionare già nell’anno successivo, ma con risultati sempre modesti (qualche paio di centinaia di tonni). Si fece pure il tentativo, nel 1963, di spostare l’impianto della tonnara in corrispondenza della Punta del Bove Marino, verso San Lorenzo, ma nel 1969 chiuse definitivamente. Per rendersi conto della scarsa produzione delle tonnare siracusane negli anni ’50, così come per tutte le tonnare in generale, è sufficiente esaminare i dati pubblicati da Trasselli, che evidenziano come, dal 1947 al 1952, in provincia di Siracusa venivano calate da sei a otto tonnare, con un numero di tonni catturati che si aggirava su una media di 700/900 anni in totale. 

Peggiori i dati raccolti sei anni dopo dall’Ufficio Provinciale di Statistica di Siracusa, riguardanti il totale del pescato delle sole quattro tonnare che erano rimaste ancora attive: Santa Panagia, Terrauzza, Marzamemi e Capo Passero. Proprio quest’ultima sopravvisse più a lungo delle altre e concluse la sua attività nel 1975, quando una petroliera, per una manovra sbagliata, la danneggiò. Per non perdere il privilegio regio a calare la tonnara, che si prescriveva dopo cinque anni di inattività, si fecero altri tentativi fino al 2004, per impulso del nobile Pietro Bruno di Belmonte, “il padrone del mare”. Ma in effetti, l’attività della tonnara di Capo Passero era già cessata una ventina di anni prima, nel 1966, quando i tonni catturati erano ormai soltanto un paio di centinaia, con un ricavato che non arrivava a coprire le spese. 

Le cause della fine delle tonnare fisse erano disparate: le coste ormai tutte abitate, con conseguenti luci e rumori, l’inquinamento del mare purtroppo presente in quasi tutte le zone, i nuovi metodi di pesca con l’utilizzo delle cosiddette tonnare volanti. Nella provincia di Siracusa, negli anni ’60, gli ultimi anni di attività, non si superarono mai, in totale, i 600 quintali di tonno pescato. 

Una raffineria a Vendicari

È necessario comunque ricordare come un gravissimo rischio sia stato corso dall’intera costa del sud-est siciliano alla fine del 1970. L’Isab (Industria Siciliana Asfalti e Bitumi) del gruppo Cameli, che era proprietario della più grande flotta petrolifera nazionale di allora, dopo essere stata respinta da San Vito Lo Capo, scelse per insediare una nuova raffineria proprio la zona attorno a “Torre Vendicari”. 

Si scatenò quella che Candido Cannavò, allora giornalista de La Sicilia, definì “la guerra della raffineria”: “il turismo, che per altri è stata fonte di ricchezza, qui da noi è diventato sinonimo di inganni, di utopie – scrisse, per fortuna smentito dalla storia, il futuro direttore della Gazzetta dello Sport – di cose che non si realizzeranno mai”. Dobbiamo evidenziare la volontà fortemente favorevole dell’amministrazione comunale di Noto ed i pareri di illustri professoroni, pronti a giurare che la raffineria installata nel cuore della riserva naturale che oggi tutti ammiriamo sarebbe stata pulitissima, perché (sic) “i tempi delle raffinerie che insozzano l’aria e l’acqua – riportò nel suo articolo Candido Cannavò – secondo questi esperti, sono finiti”. Ma, nonostante le rassicurazioni dell’Isab, pronta a giurare, in maniera categorica, che “la raffineria non avrebbe arrecato danno alla zona di Torre Vendicari e che anche per gli scarichi delle petroliere non esisteva alcun problema”, alla fine, Vendicari, Marzamemi, Capo Passero furono salvi ma l’Isab si insediò alle porte di Siracusa, nell’unica parte di litorale ancora intatta. 

Le fasi della tonnara

Il complesso edificio di reti occupava i tonnaroti per circa cento giornate l’anno, di cui quaranta o cinquanta per la pesca vera e propria e le rimanenti per il montaggio dell’ingegnosa struttura a inizio campagna e la sua relativa rimozione a fine pesca. L’intero ciclo di lavoro si compone di quattro fasi distinte: il cruciatu, il calatu, la mattanza ed il salpatu

Questi quattro momenti si susseguono, in ugual modo, in tutte le tonnare di Sicilia, tenendo però bene a mente le differenze di natura tecnica e cronologica dipendenti dalla diversa localizzazione geografica e dal loro essere di andata o di corsa o di ritorno. Quelle di andata intercettano i tonni quando non si sono ancora riprodotti, le seconde invece quando, dopo aver completato il loro ciclo riproduttivo, tornano verso l’oceano Atlantico.

Sull’andamento stagionale della pesca inoltre influivano i venti, tanto che per la tonnara di Marzamemi valeva il seguente detto: quannu lu ventu suscia a livanti, i pisci sunu abbunnanti; i venti gricali e maestrali nun fannu né beni né mali, ma quannu lu ventu suscia a punenti, stuiti u mussu ca nun fai nenti  (quando il vento soffia da levante i pesci sono abbondanti; i venti di grecale e maestrale non fanno né bene né male; ma quando soffia da ponente, rassegnati, perché non si piglia niente).

Ai marinai provenienti dai paesi vicini veniva dato in uso per tutta la stagione della pesca un pagliaru, vale a dire una di quelle casette di pochi metri quadrati che ancora attorniano la piazza Regina Margherita ed il cortile arabo a Marzamemi. Un pagliaru per ogni famiglia ed a volte per due famiglie, cariche e stracariche di figli, in una promiscuità indescrivibile.

I più fortunati disponevano di un letto fatto di trispoli, tavolo e materassi di paglia di orzo; gli altri dovevano arrangiarsi solo con della paglia buttata a terra che trovavano già sul posto, perché fornita dall’amministrazione della tonnara, che in precedenza aveva anche fatto imbiancare, con calce viva, l’interno degli alloggi. I pagliari (che ora ospitano ristoranti e bar rinomati) non erano forniti di servizi igienici, per cui gli adulti, uomini e donne soddisfacevano i bisogni fisiologici nelle ore notturne, in riva al mare, sugli scogli, ed i più piccoli, invece, a tutte le ore, nei pressi delle abitazioni.

La due chiese e San Francesco di Paola

La chiesetta vecchia della tonnara, dedicata alla Beata Maria Vergine di Monte Carmelo e costruita in pietra arenaria, oggi in parte distrutta e con una copertura provvisoria, conserva sempre un grande fascino (aveva all’interno tre altari, con altrettante statue: quella della Madonna di Pompei, di S. Antonio di Padova e di S. Francesco di Paola, patrono di Marzamemi e custodiva anche un artistico dipinto raffigurante la Madonna del Carmelo che tiene sul braccio sinistro il Bambino). La chiesa aveva già subito forti danni in passato a causa di un fortunale abbattutosi sul borgo. Nella stessa piazza, sorge ed è attiva dal secondo dopoguerra la chiesa nuova, dedicata a S. Francesco di Paola, in pietra bianca, costruita per volere di papa Pio XI, sul cui prospetto spicca un rosone di stile romanico.

I festeggiamenti in onore del Santo Patrono, protettore della gente di mare, ricorrono ogni anno nel primo lunedì di agosto dopo la festa dell’Assunta. A coprire le spese ci pensava sia la compagnia portuale, che considerava san Francesco di Paola, ai fini retributivi, come un componente della compagnia stessa e sia la donazione, da parte del proprietario della tonnara, di un tonno, il più grosso che si pescava in quel giorno.

A circa un chilometro dalla costa di Marzamemi si trovano i reperti sommersi di una chiesa di epoca e ambiente bizantini, scoperti da un pescatore del luogo, Alfonso Barone, nel 1959, mentre pescava polipi ed oggetto di ricerche da parte dell’archeologo tedesco Gerhard Kapitän e di Pier Nicola Gargallo. Una nota rivista francese dedicò all’epoca la sua copertina al ritrovamento, di cui già anche Paolo Orsi aveva raccolto qualche notizia nei primi del ‘900, ma aveva dovuto rinunciare alle ricerche per mancanza di fondi.

Un importante impianto di acquacoltura è sorto lungo la costa, in contrada Vulpiglia, con incubatoio e gabbie galleggianti. Ha subito gravi danni negli ultimi mesi a causa del maltempo.

Identità da non smarrire

La nostra speranza è che a Marzamemi venga risparmiata la triste sorte già purtroppo capitata ad altre tonnare, che, sia per l’amenità dei siti in cui sorgono sia per il pregio artistico ed i volumi degli edifici, si sono prestate bene ad essere reinterpretate come “resort” senza anima, al servizio del turismo di massa.

L’esempio da seguire si trova proprio nella nostra Sicilia, con l’ex stabilimento Florio di Favignana, progettato da Giuseppe Damiani de Almeyda, uno dei più prestigiosi architetti siciliani e dove, sino a non molti anni fa, il tonno entrava ancora boccheggiante e usciva dentro le scatolette. Ora la tonnara fissa tornerà in funzione nelle prossime settimane.

L’intervento tempestivo della Soprintendenza di Trapani, che sottopose a vincolo l’intero arcipelago delle Egadi, impedì che venisse fatto scempio di questo gioiello di archeologia industriale. Attualmente al suo interno è attiva una vasta area destinata ad attività museografiche, con sale multimediali, oltre ad un museo archeologico, in cui sono esposti reperti terrestri e marini, e ad una ampia ed accogliente sala convegni.

Gli edifici della tonnara non devono quindi essere visti come “contenitori”, suscettibili di essere riempiti utilizzando attività socioeconomiche estranee alla loro radicata identità storica. Emblematica è, a tal proposito, l’immagine di un vecchio schiere trasformato in bancone da bar all’interno di un residence sorto al posto di un’antica tonnara della Sicilia occidentale o degli scieri di Marzamemi che si stanno consumando sotto le intemperie. In tal modo vengono perduti per sempre importanti, insostituibili pezzi di memoria collettiva locale. Tra l’altro, con l’aumento delle quote di tonno che ciascuna nazione del Mediterraneo può pescare, si aprono nuovi scenari per le tonnare fisse, anche per quelle siciliane, come per si sta verificando per la rinascita di Favignana. Le tonnare, peraltro, se possono apparire violente agli occhi dei più, da un punto di vista ecologico sono senza dubbio un sistema sostenibile, perché non danneggiano il fondo marino ed inoltre le maglie delle loro reti sono tanto grandi da permettere ai pesci di piccola taglia di poter scappare senza difficoltà. Il successo del docu-film Diario di tonnara, del regista Giovanni Zoppeddu, entrato nella selezione ufficiale del Festival del Cinema di Roma, è la conferma di una ritrovata attenzione verso un mondo che continua ad affascinare.

Se si smarrisce il genius loci, solo qualche foto ingiallita e qualche libro resteranno a ricordare che quel centro vacanze, magari conservando il suggestivo nome “La tonnara”, era stato un mondo vitale ed unico, che aveva garantito pane e lavoro a centinaia di persone in tempi davvero difficili. Il museo della tonnara di Vendicari, curato da Michele Modica, discendente degli ultimi proprietari di quella tonnara, testimonia la grande rilevanza di queste vere e proprie imprese industriali.

Negli Otto peccati capitali della nostra civiltà, Konrad Lorenz sostiene che il peccato più preoccupante è forse quello di perdere le tradizioni: se le smarrisci, infatti, non hai più i riferimenti nell’universo in cui collocarti.

In un’era di globalizzazione, chi perde la propria identità si consegna a valori e riferimenti estranei ed effimeri. E non ci può essere futuro senza una precisa identità.

Salvo Sorbello